Simone Weil, l’ombra e la grazia. (E un dono)
Malheur : le temps emporte l’être pensant malgré lui vers ce qu’il ne peut pas supporter et qui viendra pourtant.
Simone Weil
« Que ce calice s’éloigne de moi. » Chaque seconde qui s’écoule entraîne un être dans le monde verse quelque chose qu’il ne peut pas supporter. Il y a un pont de malheur où l’on n’est plus capable de supporter ni qu’il continue ni d’en être délivré.
L’infelicità: il tempo trasporta suo malgrado l’essere verso ciò ch’esso non potrà sopportare e che tuttavia verrà. «Allontana da me questo calice!» Ogni secondo che scorre, trascina un essere nel mondo verso qualcosa ch’egli non può sopportare. Nella sofferenza c’è un punto in cui si è incapaci di sopportare, tanto che si continui, tanto che s’interrompa.
Ogni secondo che passa versa nel mondo qualcosa che l’essere non può contenere, ma che lo invade comunque.
C’è un ponte — stretto, molle, maledetto, crepato — su cui non si è più capaci né di avanzare, né di tornare indietro.
Quanto al desiderio che il cammino finisca, qui non dobbiamo sottovalutare che
il mio cervello vuole annientarmi; il mio corpo trama per restare.
Questo dolore è una dissonanza biologica.
Il dolore è disorientato in ogni direzione.
Non si sopporta che continui, perché non si resiste.
Non si sopporta che cessi, perché sarebbe abbandono.
La verità è che la volontà scricchiola, ma non preannuncia una resa totale.
Me lo dicevano, gli amici, ma non ci credevo.
Mentre si sopravvive, l’idea di porre fine alla sopravvivenza richiede un surplus di energia che non c’è.
Prima della morte, a chi ha tempo, viene data una sentenza di morte.
Ironicamente, quella sentenza viene risparmiata a chi morirà
e finisce per ghigliottinare chi resta a prendersi cura di quell’atroce sospensione.
La fine non arriva al termine, ma si dipana attraverso l’attesa vivente.
Viviamo i giorni impossibili, le dicevo. E ogni volta il tono era diverso.
Quando sopraggiungeva un’allucinazione, la risposta rassicurava senza sminuire.
Era impossibile vedere ciò che vedeva, quindi bisognava trovare un modo per sconfiggere una paura senza riuscire a percepirla.
Impossibile inventare un antidoto per un avvelenamento immaginario, no? Per questo, si fa.
Quando si commentava una lettura, l’impossibile aveva le labbra secche e molta stanchezza,
ma si ostinava a tuffarsi a testa in giù per rompere la tensione superficiale del cenote di lacrime.
Quando si rideva, perché si rideva molto, l’impossibile era lì a ridere con noi insieme all’assurdo.
I giorni impossibili sono giorni estorti, non regalati.
Sono quelli in cui guardi la morte negli occhi che smettono di rispondere un po’ alla volta e non arretri, non ti fa schifo niente.
Quel tempo è impossibile perché non esiste già più: è rubato.
E la refurtiva si calcola dopo, quando l’impossibile si è esaurito denunciando la sua natura illusoria.
«Ti fidi di me?»
«Sì, sempre.»
Ogni sì aveva meno anni del precedente.
I primi sì erano adolescenziali; gli ultimi erano cenni del capo, spaventati.
Ricordo il peso esatto delle sue braccia al collo per alzarla un attimo in piedi.
La reggevo sotto le ascelle. Se non ce la fai più, lasciati andare, ti reggo io.
E intanto, guancia a guancia, quanti grazie, quanti bacini. Era tutto così circoscritto.
Il nostro amore occupava qualche metro quadro in tutto.
Il modo per farle fare qualsiasi cosa era chiederle se si fidasse di me. E fare in modo che continuasse a farlo.
Così non vacillavo, non tentennavo, non mi astenevo, non limitavo la mia partecipazione al suo evento,
non mi chiudevo, non cedevo all’addio. Ogni resistenza si paga, dopo. Ma durante, vince la grazia.
Il 2 maggio del 2025 ho un compleanno da festeggiare, ma ricordare la mia nascita significa evidenziare la separazione.
Amorevolmente prelevata e portata fuori dal mio habitat per mettermi al sicuro dai miei pensieri,
mi ritrovo sulla panchina del giardino segreto di un chiostro, nel primaverile assoluto di un mezzogiorno tedesco.
L’unico suono poderoso, galoppante, è quello di due fontane amiche,
che fanno il tifo l’una per l’altra dai lati opposti del sentiero bianco e onomatopeico sotto le scarpe.
Le fontane hanno entusiasmo.
Ho portato con me giusto la biancheria e un paio di magliette: non sono in vacanza, sono in fuga.
Ma non ho dimenticato l’indispensabile Weil, dono di Carmine Mangone (che non ho avuto modo di ringraziare a sufficienza).
Ho quarantadue anni, quando arrivo a pagina centottantacinque. Dovevo arrivare a quarantadue anni per comprendere questo:
L’union des contradictories est écartèlement : elle est impossible sans une êxtreme souffrance.
Simone Weil
L’unione dei contraddittori è dilacerazione; essa è impossibile senza una estrema sofferenza.
Conoscevo solo il termine lacerazione: dilacerazione, mai sentito.
Scopro che i due termini risultano intercambiabili, ma “dilacerazione” ha una nuance di maggiore severità maggiore o implica un’azione intenzionale.
Lacerante

Il dolore è il re dell’attuale: cosa sarebbe senza il participio presente? Questo formante verbale risale al Proto-Indoeuropeo ed è nato con tutta probabilità dall’esigenza di avere una forma flessa che indicasse l’azione in corso. Già nel PIE, il “participio presente” non indica solo l’azione nel suo mentre, ma assume anche il valore di agente: il fatto che il verbo indichi uno svolgimento rende sottinteso che ci sia qualcuno o qualcosa, comunque un soggetto con un ruolo.
Non è stupendo? Abbiamo una forma per dire il divenire. Il participio presente nomina in un atto d’arte sia ciò che accade, sia il soggetto della contingenza. La vita colta nel suo atto preferito: (r)esistere.
Weil, in tedesco, significa “perché” quando si risponde. Il because in inglese, per capirci.
Ho soffiato via la primavera che ha soffiato via me, poi mi sono chinata per raccogliere i testimoni di quel tutto che si agitava nell’universo. Ero certa che avrebbero macchiato il libro, ma l’ombra di ciò che è, proiettata dalle cose o dalla mente — anche lei è una forma di grazia.

