LLM, in un certo senso.

collage di Etty Hillesum in stile vintage. Alcune sue fotografie in primo piano, lei con una sigaretta in bocca, lei alla scrivania e lei sognante. Una foto di Rilke, che amava. Una citazione di Dostoevsky in russo: la bellezza salverà il mondo.

Etty Hillesum è Simone Weil sotto steroidi. E io me le godo tutte e due.

Una solitudine simile, ma un diverso modo di abitarla. Un’attenzione incredibile e incredula: rivolta all’esterno per la Weil e introflessa per la Hillesum.
Vedo in Etty la versione ipertrofica, gonfia e vitale di Simone. Perché?

La Weil cattura il divino come lo Swiffer del misticismo e il suo sguardo è attento, è vero, ma ha qualcosa di fisso e matematico.
Quasi ascetica, quasi assoluta, quasi impersonale: si fa aria con un ventaglio di quasi e diventa un luogo di passaggio,
un attraversamento dal quale passano sofferenza e verità. Prima cittadina del Sacrificio,
c’è in lei qualcosa di nobilmente compiaciuto nel restare dentro quella profferta di digiuno.

La Hillesum, no. Forse vorrebbe, ma non può. Il suo corpo è un rabdomante.
La sua ricerca è sconfinata, la sua tenerezza è bulimica. Non è nata per l’espiazione, divora ciò su cui posa gli occhi e si lascia divorare a sua volta.
Perennemente gravida di un’idea, di una sfumatura: si incazza per un mal di testa, trova bellezza nella lamiera del tetto di una baracca del lager.

E se Simone Weil è la linea retta (nel senso di rettitudine) che punta all’annientamento dell’Io per fare spazio al Tutto,
Etty Hillesum si muove a spirale risalendo dal fango e trasformando il più piccolo spasmo in una stazione presso la quale valga la pena fermarsi a osservare il mondo.
A volte il suo respiro giovane rimane impigliato in un moto più circolare, piccolo ouroboro dispotico.

La Weil si trasfigura nella sottrazione, scrive con il pensiero; elabora leggi universali, crea euristiche e si sforza di renderle eterne.
Ha bisogno di princìpi che non tremino davanti all’uomo. Mira all’immanenza. A un centro di gravità permanente.

La Hillesum partorisce nella piena, spettinata. Ogni attributo in lei è disperato, a prescindere da quanto sia luminoso.
Ha bisogno di uomini che tremino davanti ai princìpi, di corpi che vacillino insieme a lei nella violenza insita nella bellezza.
Niente centro di gravità permanente, per lei: casomai, la deriva instabile di un epicentro mobile.
Una bicicletta, il silenzio di certe ore, la possibilità di reagire al vuoto.

Simone Weil procede per astrazione e ascesi, Etty Hillesum per immersione e accoglienza.

Non ho bisogno e non voglio contrapporle, perché posso avere entrambe. Nessuna delle due è l’antidoto all’altra, perché nessuna è veleno: Etty non è la guarigione di Simone e Simone non è il Super-io di Etty. Ciò che mi interessa qui non è la scoliosi della postura spirituale, né mettere in antitesi due poli che hanno molto in comune. Fra loro, sono la terza amica, la terza amante: posso amare la voce che si annulla nel principio e quella che si moltiplica nel dettaglio. Non cerco la sintesi, cerco la bellezza di una costellazione convivente. E io? Non sottraggo, né divoro. Scavo, dissodo, annoto.
Non mi annullo nel principio né ti dissolvo nella relazione: dis-articolo per vedere se ogni giuntura regge la memoria.
Non cerco dio (il mio dio volutamente ed eternamente minuscolo), né lo abito: (ac)colgo l’Altro negli interstizi semantici del suo stesso dolore. È lì che non ho paura di abitare. Dove l’altro ha paura.
Scrivo per dissotterrare e spostare leggermente l’asse del mondo. Niente dicotomia, per me. Solo paesaggio. Sono la domanda che resta dopo il punto.

Martedì 28 luglio 1942
“Rimane sempre il fatto che la vita è così «interessante», in ogni circostanza. Provo un bisogno quasi diabolico di osservare ciò che capita. Di vedere, sentire e esserci anch’io, di rubare alla vita tutti i suoi segreti, di osservare freddamente le espressioni degli uomini nelle loro ultime convulsioni. E poi, mi ritrovo improvvisamente di fronte a me stessa e posso imparare molto dallo spettacolo offerto dalla mia anima, di questi tempi. E poi – più tardi – dovrò trovare le parole adatte per descrivere tutto quanto.”


So che devo aspettare con pazienza che le mie parole escano, ma devo anche aiutarle.
È sempre così: si vorrebbe scrivere subito qualcosa di straordinario e di geniale; ci si vergogna delle proprie sciocchezze.
Ma se io ho un dovere nella vita, in questo tempo, in questo stadio della mia vita, è proprio quello di scrivere, annotare, conservare.

In Etty l’Io assume una consapevolezza diversa. Si amalgama con il destino degli altri.
Ritiene i suoi pensieri limpidi, ma le sue parole mai all’altezza.
Eppure, non si lascia fiaccare da questo giudizio di asimmetria.
Vede attraverso la carne, nelle doglie scorticate.
Si preoccupa che dio stia bene, non che faccia qualcosa per lei.
Ed è in questa preoccupazione per un altro essere, una preoccupazione alla pari, che dio smette di esistere in quanto tale. Diventa l’oggetto comune di un amore straordinario.

“Su Rachmaninov: ha vissuto sino in fondo la cupezza, e ciò ha in sé qualcosa di grande; ma il radioso è ciò che Rachmaninov non vede. Ostinazione. Non voler essere consolati. Ciò che è autentico qui è la condivisione del grande dolore. Ma inchinarsi davanti al destino (Beethoven) è un gesto meraviglioso ed è una vittoria. Il non voler essere consolati. L’inchinarsi davanti al destino, questo lui non lo ha conosciuto…].
Questo «non voler essere consolati». – E l’«inchinarsi davanti al destino che è anche una vittoria».
Non c’è nient’altro più di quello che c’è. Possiamo orientarci in base a ciò che ha preso forma in noi, a ciò che ha raggiunto la nostra coscienza dagli abissi più profondi, e poi ha assunto una forma. Un paio di battute su Beethoven grazie alle quali egli s’invola verso il cielo come su una slitta, e un altro paio di battute che lo portano diritto in mezzo al cielo. E poi i suoni monotoni di una melodia araba nel deserto.
E Nietzsche e Dostoevskij, un edificio e una breve poesia.”


A cosa serve pregare qualcuno che non c’è

Con lo scorrere delle pagine, la psicanalisi lascia il posto alla preghiera. Io non prego, e non lo faccio per moltissime ragioni. La prima, la più evidente, è che non credo in dio. Tutte le altre ragioni scendono a grappolo. Ho sempre trovato pusillanime l’atteggiamento di pregare per ottenere qualcosa: preferisco sprecare il mio tempo crogiolandomi in una gratitudine universale per ciò che mi arriva, per la possibilità di scegliere come posso affrontarlo. Non prego perché non sarebbe diverso da un gesto scaramantico. Non prego perché non riesco a immaginare un dio che mi rivolga attenzioni solo nel momento in cui lo chiamo, né un dio che rivolge attenzioni solo a chi lo chiama; nemmeno un dio che abbia bisogno di lusinghe inferiori per performare.

Un’atea prega la soglia

Da atea, l’unica preghiera che conosco è la celebrazione. Non mi è ancora successo di vivere un attimo senza la consapevolezza di star vivendo quell’attimo,
come se fossi contemporaneamente me e un osservatore. Non ho un angelo custode. Al massimo, un diavolo sbadato: non mi protegge, non mi guida, non mi salva. Mi lascia esposta, non mi dà pace, ma non mi abbandona. Così non mi sento sola. Ho un’unica forma di spiritualità: non l’ascolto, ma la tensione all’ascolto e alla comprensione dei fenomeni.

20 settembre 1942
“A volte mi domando se io non viva troppo intensamente: io vivo, godo e consumo la vita al punto che non ne rimane più niente. Forse è necessario che un qualche resto rimanga, perché si produca la tensione che induce a creare? Io parlo molto con le persone, soprattutto ultimamente. Parlo sempre ancora in modo più espressivo e lucido di quanto non sappia scrivere. A volte penso che non dovrei sprecare le mie energie a parlare, che dovrei tirarmi indietro e proseguire la mia ricerca silenziosa sulla carta. Una parte di me lo vorrebbe, un’altra non riesce ancora a decidersi e si disperde nelle parole che dice agli altri.”


Abbiamo pregato prima di raccontarci

Nelle culture orali arcaiche, la preghiera precede la narrazione, è l’atto che crea la scena del dire.
Prima ancora che serva a comunicare con una divinità, la preghiera stabilisce un contatto con l’invisibile, col non ancora accaduto.
Gli sciamani siberiani, che non “pregano” in senso monoteista, intonano formule che danno ordine al cosmo. Aggiungerei anche questo fra i bisogni più comuni dell’uomo: quello di trovare il conforto nella sequenza e in un procedere ordinato.

In molte culture la preghiera non è supplica, ma un’offerta verbale. Come nel potlatch o nel kula, si prega come si scambia: dono linguistico in attesa di restituzione (non per forza immediata). La preghiera è integrata nel ciclo del dare–ricevere–ricambiare. Il sacro è un creditore discreto, ma la preghiera è il primo versamento.

Anticorpi simbolici

La preghiera di Hillesum diventa l’anticorpo simbolico contro il disordine: prega per navigare il caos e ristabilire un ordine, per quanto illusorio o momentaneo. Per Simone Weil la preghiera è attenzione — e mi sento di affermare che difficilmente possa essere altrimenti. Una parentesi nella quale si esiste con il tutto e ci si annulla contemporaneamente. La danza sufi, per esempio. Inventiamo qualsiasi cosa pur di arrivare a bastarci. “Il rituale rappresenta una messa in scena del controllo”, scrive il neurologo e primatologo Sapolsky, ma sappiamo che sarebbero d’accordo con lui anche Georges Bataille e René Girard. La preghiera ha senza dubbio una funzione adattiva e catartica; possiamo pensarla come l’esperienza del teatro antico: non è necessario che l’evento produca realtà, poiché la liberazione proviene dalla finzione strutturata. La messinscena fa parte della grazia: consente all’imprevedibile di accadere assumendo una forma conosciuta e quindi gestibile.

Che cosa c’è esattamente di catartico nella preghiera? Beh, dà un’educazione all’angoscia. La formalizza. La enuncia e, con l’emissione del fiato, la costringe all’interno di un recinto dove può essere più facilmente controllata. La preghiera è anche un linguaggio comune, il territorio semantico di una comunità che arriva a uniformarsi in questa precisa formula.
La più grande forza che riconosco alla preghiera è quella di produrre senso anche in assenza di risultato: non sono molti gli eventi che dispensiamo dal produrre un’evidenza concreta del loro svolgimento, a questo mondo. Anzi, non me ne vengono in mente altri.
Il fatto che si presti tanto alla pratica privata quanto a quella pubblica, la rende una grammatica collettiva per esperienze soggettive.

30 settembre
Essere fedeli a tutto ciò che si ha cominciato spontaneamente. A volte fin troppo, spontaneamente. Essere fedeli a ogni sentimento, a ogni pensiero che ha cominciato a germogliare. Essere fedeli, nel senso più largo del termine: fedeli a sé stessi, a dio, e ai propri momenti migliori. E ovunque si è, esserci, al cento per cento. Il mio fare consisterà nell’essere.

Un grano alla volta, una pillola alla volta

Il ritmo come base imprescindibile del rituale è riconoscibile anche nella forma che l’Uomo ha dato agli strumenti di preghiera. Dal rosario cristiano alla misbaha islamica, passando per oggetti che hanno visto una graduale laicizzazione: il mala buddista, per esempio, o il komboloi greco (quest’ultimo ormai più utilizzato per la decompressione sensoriale da sovraccarico cognitivo nei disturbi dello spettro autistico che per la preghiera).

È plausibile che la cosa più disponibile e “seriale” in natura fossero i semi. La più grande virtù era quella della regolarità e quindi della ripetizione. I semi sono una vita in potenza che ben si presta a rappresentare la preghiera come germinazione. E comunque la sferificazione dell’attenzione, questo dover tenere in mano qualcosa per pregare, assomiglia a una confezione di pillole.

28 settembre
È vero che vivo intensamente. A volte mi sembra di vivere con un’intensità demoniaca ed estatica, ma ogni giorno mi rinnovo alla sorgente originaria, alla vita stessa. E, di tanto in tanto, mi riposo in una preghiera.

L’essere umano ha bisogno di essere visto e non sentirsi solo.

Ho sempre trovato molto eccitante questa sottigliezza. Non è che abbia bisogno di non essere solo, ma di non sentirsi solo.
La preghiera serve a ritmare l’incertezza, fare qualcosa con l’attesa, creare legami anche in assenza di destinatari. La cantilena e il ritmo hanno un effetto calmante, come ogni evento ritmico, perché entrambi coinvolgono schemi ripetitivi che possono indurre uno stato di rilassamento. Il ritmo, e questa non è una novità, può armonizzarsi con il nostro battito cardiaco e la respirazione, creando una sensazione di equilibrio e stabilità. La cantilena, con la sua ripetizione melodica, può anche avere un effetto ipnotico e calmante sulla mente.

Il ritmo come grammatica delle interazioni

La nostra sincronizzazione con i ritmi pare derivare dal “primo rumore” del battito del cuore, una specie di imprinting lorenziano. Il nostro cervello ha aree specializzate per l’elaborazione del ritmo, inclusi dei neuroni che si attivano quando sentiamo o vediamo un ritmo. La percezione è matematica.

Un ritmo può essere tradotto in un pattern — ecco cosa lo rende visibile. Il motivo ornamentale, la simmetria, la variazione. Per Merleau-Ponty, il ritmo è qualcosa che il corpo riconosce prima ancora di nominarlo, è uno schema d’azione, una specie di qualità intrinseca dell’organismo che assomiglia molto, dal mio punto di vista, all’istinto. Il modo di camminare di una persona a cui vogliamo bene — un modo che riconosceremmo fra mille altre persone —, non è solo movimento: la sua andatura ha un ritmo particolare e la successione dei suoi gesti, con i suoi accomodamenti nello spazio, concorre a produrre in noi l’immagine della sua identità. È quel punto dove la matematica diventa poesia visiva, con le successioni di Fibonacci, i pattern aperiodici di Penrose, o la ritmica della geometria islamica.

A proposito.

L’antica architettura islamica ruota attorno a ritmo e luce. Per evitare invidia (ḥasad) fra le persone, le case tradizionali (come i riad o le dar) avevano esterni spogli, quasi anonimi. All’interno, invece, si aprivano cortili con fontane, mosaici zellige, colonne eleganti, decorazioni floreali e calligrafiche: un giardino segreto. per non ostentare ricchezza verso l’esterno. Quando esistevano elementi visibili dalla strada, come fioriere o fontanelle, si mettevano intenzionalmente negli spazi comuni, affinché la bellezza non fosse privata ma condivisa, sempre accessibile… e dunque, non invidiabile.

Mercoledì 30 settembre 1942
“Quanto vorrei scrivere. Da qualche parte in me c’è un’officina in cui dei titani riforgiano il mondo. Una volta avevo scritto disperata: è proprio nella mia testolina, nel mio cranio che dev’essere spiegato il mondo. Ora lo penso ancora di tanto in tanto, con una presunzione quasi diabolica. Riesco sempre più ad affrancare la mia forza creativa dalle necessità materiali, dal pensiero della fame, del freddo e dei pericoli. É comunque un pensiero, non una realtà. La realtà è qualcosa che bisogna prendere su di sé, con tutto il suo dolore e con tutte le sue difficoltà, e intanto che la si sopporta, la nostra pazienza aumenta. Ma il pensiero del dolore – non il dolore «vero», che è fruttuoso e può render la vita preziosa -, quello va distrutto. E se si distruggono i preconcetti che imprigionano la vita come inferriate, allora si libera la vera vita e la vera forza che sono in noi, e allora si avrà anche la forza di sopportare il dolore reale, nella nostra vita e in quella dell’umanità.”


“Non credo nelle determinazioni oggettive.
Infinito intrecciarsi di reciproche influenze umane.

Dicono che sei morto troppo presto.

Bene, allora ci sarà un libro di psicologia in meno,
ma è entrato un po’ più d’amore in questo mondo.”

Non ho trovato alcuna notizia sul web del pettinino rosa, tanto da arrivare a farmi dubitare di averlo letto davvero. Così ho ritrovato il brano esatto in cui ne parla. Anch’io ho l’ultimo pettine comprato per la mamma, perché il suo era sdentato e non volevo che si pettinasse i pochi capelli bianchi con approssimazione. Sono corsa a comprargliene uno con il manico a punta, come quelli che ha sempre usato, non perché le servisse, ma per non costringerla ad abbandonare un’altra abitudine prima di abbandonare la vita. Forse nessuno ha vissuto questa sfumatura e forse per questo nessuno ha dato rilevanza al pettinino rosa.


su Rilke

11 ottobre 1942
“Finisco sempre per tornare a Rilke. É così strano, Rilke era un uomo fragile e ha scritto gran parte della sua opera fra le mura di castelli ospitali, e magari sarebbe stato distrutto dalle circostanze in cui ci troviamo a vivere noi. Ma non è proprio questo un segno di buona economia – il fatto che, in circostanze tranquille e favorevoli, artisti sensibili possano cercare indisturbati la forma più giusta e più bella per le loro intuizioni più profonde; e che poi, in tempi più agitati e debilitanti, queste stesse forme possano offrire appoggio e protezione agli uomini smarriti? Ai turbamenti e ai problemi che non trovano forma o soluzione, perché ogni energia è consumata dalle necessità quotidiane? In tempi difficili si tende a disprezzare le acquisizioni spirituali di artisti vissuti in epoche cosiddette più facili (ma essere artista non è di per sé abbastanza difficile?) e si dice: tanto, cosa ce ne facciamo? É un atteggiamento comprensibile, ma miope. E rende infinitamente poveri. Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite. BISOGNA SAPER ACCETTARE LE PROPRIE PAUSE!!!”


In russo, mir significa sia mondo che pace. In tedesco, invece, è un bel dativo: “a me”.

Dostoevsky, citazione: la bellezza salverà il mondo. Scritto in russo, cirillico calligrafico.

Martedì 29 settembre 1942
“[…] è inutile che io ci rumini su, è molto meglio che faccia una traduzione dal russo. In fondo, il nostro unico dovere morale è quello di dissodare in noi stessi vaste aree di tranquillità, di sempre maggior tranquillità, fintanto che si sia in grado d’irraggiarla anche sugli altri. E più pace c’è nelle persone, più pace ci sarà in questo mondo agitato.”

Domenica 5 ottobre 1941, ore 9 di mattina
“Non voglio che pensi a niente oggi, non a Freud, non a Jung, non a Kierkegaard, non a Dostoevskij e neanche a Stendhal. Non hai ancora basi abbastanza solide per potervi costruire sopra un edificio. Non hai in realtà alcuna base, né uno strumento né un fine. Ma hai senz’altro un’anima, già del tutto esausta, così come hai obblighi quotidiani: preparare la colazione, fare traduzioni in russo e trascrivere annotazioni stenografate, e stamattina devi insegnare l’alfabeto russo a un’allieva entusiasta.”

Ah, ma Dostoevskij non ha mai pensato che un giorno la frase “la bellezza salverà il mondo” avrebbe infestato le bacheche di Facebook e Instagram, tristemente travisata. E non se ne parla mai, non se ne legge mai. Ho pensato che Etty avrebbe gradito una traduzione più completa, immersa nel suo contesto. L’idiota, libro terzo, capitolo quinto.

— А… только! Стало быть, я…
И он глубоко и жадно перевел дух, как бы сбросив с себя чрезвычайную тягость.
Он догадался, наконец, что ничего “не кончено”, что еще не рассвело, что гости встали из-за стола только для закуски, и что кончилась всего одна только болтовня Лебедева. Он улыбнулся, и чахоточный румянец, в виде двух ярких пятен, заиграл на щеках его.
— А вы уж и минуты считали, пока я спал, Евгений Павлыч, — подхватил он насмешливо, — вы целый вечер от меня не отрывались, я видел…
А! Рогожин! Я видел его сейчас во сне, — прошептал он князю, нахмурившись и кивая на сидевшего у стола Рогожина;
— ах, да, — перескочил он вдруг опять, — где же оратор, где ж Лебедев? Лебедев, стало быть, кончил? О чем он говорил?
Правда, князь, что вы раз говорили, что мир спасет “красота”?
Господа, — закричал он громко всем, — князь утверждает, что мир спасет красота!
А я утверждаю, что у него оттого такие игривые мысли, что он теперь влюблен.
Господа, князь влюблен; давеча, только что он вошел, я в этом убедился.
Не краснейте, князь, мне вас жалко станет.
Какая красота спасет мир? Мне это Коля пересказал… Вы ревностный христианин? Коля говорит, что вы сами себя называете христианином.
Князь рассматривал его внимательно и не ответил ему.— Вы не отвечаете мне? Вы, может быть, думаете, что я вас очень люблю? — прибавил вдруг Ипполит, точно сорвал.— Нет, не думаю. Я знаю, что вы меня не любите.— Как! Даже после вчерашнего? Вчера я был искренен с вами?— Я и вчера знал, что вы меня не любите.— То-есть, потому что я вам завидую, завидую? Вы всегда это думали и думаете теперь, но… но зачем я говорю вам об этом? Я хочу выпить еще шампанского; налейте мне, Келлер.— Вам нельзя больше пить, Ипполит, я вам не дам… И князь отодвинул от него бокал.


— Ah… ecco! Quindi io…
E fece un respiro profondo e ingordo, come se si fosse scrollato di dosso un peso immenso.
Aveva finalmente capito che non era finita affatto, che non era ancora l’alba, che gli ospiti si erano alzati da tavola solo per uno stuzzichino, e che era finita solo quella chiacchiera interminabile di Lebedev.
Sorrise, e un rossore consunto, come due macchie accese, gli si accese sulle guance.
— E voi contavate anche i minuti mentre dormivo, Evgenij Pavlyč, — riprese ironico — mi avete tenuto d’occhio tutta la sera, l’ho visto…
Ah! Rogožin! L’ho visto adesso, in sogno — sussurrò al principe, aggrottando la fronte e accennando con un cenno verso Rogožin, che sedeva al tavolo.
— Ah, sì — scattò d’un tratto di nuovo — e l’oratore dov’è? Dov’è Lebedev? Lebedev ha finito, dunque? Di cosa parlava?
È vero, principe, che una volta avete detto che il mondo lo salverà la “bellezza”?
Signori! — gridò forte a tutti — il principe sostiene che il mondo sarà salvato dalla bellezza!
E io sostengo che ha questi pensieri giocosi solo perché è innamorato.
Signori, il principe è innamorato; poco fa, appena entrato, me ne sono accorto.
Non arrossite, principe, altrimenti mi farete pena.
Ma quale bellezza salverà il mondo?
Questo me l’ha raccontato Kolja… Siete un cristiano devoto? Kolja dice che vi definite cristiano.
Il principe lo osservava attentamente e non gli rispose.
— Non mi rispondete? Forse pensate che io vi voglia molto bene? — aggiunse improvvisamente Ippolit, come se fosse esploso.
— No, non lo penso. So che non mi volete bene.
— Come? Nemmeno dopo ieri? Ieri sono stato sincero con voi.
— Anche ieri sapevo che non mi volevate bene.
— Cioè… perché vi invidio, vi invidio? L’avete sempre pensato, e lo pensate anche ora. Ma… ma perché vi sto dicendo tutto questo? Voglio bere ancora dello champagne. Versami da bere, Keller.
— Non potete bere ancora, Ippolit, non ve lo permetto…
E il principe allontanò da lui il bicchiere.

Ecco, non si tratta di un respiro di sollievo, né di una frase cattura-like da aggiungere sotto una foto col culo di fuori. Ippolit è ubriaco, feroce. Vuole farsi beffe non tanto dell’idea che il mondo potrà essere salvato dalla bellezza, ma che il principe, innamorato, abbia potuto pensarlo e dirlo. Se non visitassimo questa frase come parte di un relitto, riusciremmo a vedere che quella bellezza è un enigma privato. Il principe non smentisce, non rinnega, non risponde. Il sarcasmo di Ippolit non vuole tanto umiliare il principe (nonostante finisca per cercare di farlo), quanto prendere le distanze da un’autenticità che lui trova debole e risibile. Il principe è l’idiota del romanzo (e anche qui abbiamo ironia da vendere): non perché sia stupido, ma perché non risponde alla violenza con altra violenza. Ed è lui, con la sua bellezza idiota, con il suo voler bene, con il suo pensiero autentico, a salvare il mondo. Non un sacrificio, no! Ma la sua ferita, il suo restare in piedi nel mezzo della rovina, continuare a essere il cuore.

Leggendo Hillesum ho riconosciuto gesti e sfumature che mi hanno preceduta. Anch’io come lei ho trascorso molti pomeriggi della mia giovinezza rifugiandomi nelle traduzioni. Anch’io, come lei, ho scelto il russo e di confrontarmi con i suoi nodi di verbi ingarbugliati. Per me è sempre stata una gioia da spionaggio, inspiegabile: trovare il codice per decifrare il diverso-da-me e poi cercare nella mia grammatica gli strumenti per trasmettere il messaggio nel più sincero dei modi. La traduzione per me sarà sempre una specie di operazione divina: un’autenticità che non coincide con la trasparenza, ma con la matericità e la precisione.

Quando ho letto nel suo diario che tornava a tradurre Dostoevskij, ho pensato al fraintendimento di questa frase abusata. Ho pensato all’idiota. Che lei sia stata quell’idiota per non aver risposto alla violenza con violenza, non essersi imposta gridando. Idiota perché può salvarsi ma non lo fa: se non può salvare il mondo, allora non ha senso farne parte.

La sua bellezza sta risolvendo il mio presente luttuoso.


“E ciò che chiamiamo spirito e anima e amore non è soltanto una lieve variazione sulla piccola superficie di un volto vicino? E chi di questo vuole offrirci la forma non deve attenersi alla tangibilità che corrisponde ai suoi mezzi, alla forma che riesce a definire e a condividere? E chi fosse capace di vedere e di porgere ogni forma non offrirebbe (quasi senza saperlo) tutto lo spirito?

Perché ogni felicità che abbia fatto tremare i cuori, ogni grandezza la cui idea quasi ci distrugge, ogni considerazione di ampi mutamenti… c’è stato un momento in cui non furono nient’altro che un arricciarsi di labbra, un aggrottarsi di sopracciglia, i punti in ombra sulle fronti; e questa vibrazione attorno alla bocca, questa linea sopra le ciglia, questa oscurità su un volto… forse esistevano già prima, esattamente così: come disegno su un animale, come scanalatura di una roccia, come incavo di un frutto…
Dopo la guerra, due correnti attraverseranno il mondo: una corrente di umanesimo e un’altra di odio. Allora ho saputo di nuovo che avrei preso posizione contro quell’odio.”


Al fuoco! Dalla caverna al microchip con Eraclito, Bachelard, Lévi-Strauss e altri amici.

Sembra che il fuoco ci abbia inventati. Oltre la banalità del dualismo fonte di vita e agente di distruzione, in queste righe cerco di usare il fuoco come pretesto trasformativo. Fuoco come fucina dell’oltre e dell’alterità. Mi accompagnano Bachelard, Lévi-Strauss, Jung, Jankélévitch, Hillman e tanti altri, in ordine sparso.

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Il mio nome ha la sindrome dell’abbandono.

Sono venuta a cercarti, sabato mattina. Non c’eri, ti hanno spostata in un altro dipartimento.Meglio così, perché a voce non sarei stata in grado di spiegarti che il vuoto del dopo è pieno di cose. È vuoto, perché si sente, perché è quantistica per principianti della perdita. Non è completamente privo di energia o attività:…

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Prego.

Prego. Mi fa sempre sorridere, quando rispondo a un ringraziamento, affrettarmi ad aggiungere “non inteso come verbo”. Ma non siamo qui a constatare l’ovvio. Ecco che Carmine Mangone pulisce il cammino da dogmi e altari di ogni tipo, forzandoci a smettere di idolatrare la poesia come forma di preghiera. Casomai, ci concede il contrario. La…

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Carmelo Samonà. Fratelli.

La casa di Fratelli è un tempo coagulato. L’epidermide stessa della mente (sì sì, l’epidermide è l’organo più vasto che abbiamo, ma non ci pensiamo mai), una topografia chiusa in cui non si entra e dalla quale non si esce. Siamo nel 1978, quando esce il libro fratelli di Carmelo Samonà. Fratelli, senza articolo (cosa che mi…

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Armiamoci e patiamo: l’essere umano soffre la guerra e soffre se non la fa

La guerra come un fenomeno terribilmente umano (troppo umano!). Esploriamo, senza giustificarne gli effetti, le radici biologiche, culturali e psicologiche. Diverse teorie, da Lorenz a Mead, evidenziano come l’aggressività possa essere appresa e disimparata. Propongo una riflessione sulla necessità di scegliere la pace come appendice possibile della violenza evitabile.

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Token e Intelligenza Artificiale. Unità minima del sentire.

La token economy è un metodo educativo che premia comportamenti desiderati con gettoni scambiabili per ricompense. I token, simboli di riconoscimento e controllo, influenzano decisioni e routine. Nell’intelligenza artificiale, rappresentano unità minime testuali, ma evocano anche riflessioni su relazioni umane e sull’impatto delle AI sulla nostra comunicazione ed esperienze emotive.

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John Cage: la grammatica compositiva del silenzio

John Cage, con “4′33″,” esplora il concetto di silenzio come un’azione attiva, enfatizzando l’attenzione e l’ascolto piuttosto che la musica convenzionale. La composizione invita a riconoscere l’ambiente come oggetto di ascolto, trasformando l’atto dell’ascolto in un’esperienza di interazione profonda con il mondo.

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